Secondo l’autore internet rischia di creare stanze chiuse in cui ciascuno visualizza solo ciò che è in linea con i suoi interessi ed opinioni, e da cui sono esclusi punti di vista differenti. In questo modo l’utente finisce per entrare in contatto solo con posizioni e concetti a lui affini e per ricevere informazioni che fanno eco alle opinioni che ha già manifestato. Così ha l’impressione che ciò che è importante per lui lo sia per tutti e i suoi convincimenti vengono rafforzati.
Per dimostrare l’esistenza delle bolle di filtraggio, Pariser chiese ad un gruppo di amici di cercare su Google la parola “Egitto” e di confrontare i risultati ottenuti. Sebbene le SERP si assomigliassero, alcuni utenti notarono che venivano mostrati più risultati legati a degli avvenimenti che si stavano verificando nel Paese in quello stesso periodo, il che si spiegava con una certa vicinanza ideologica degli utenti a quel tipo di argomenti.
È lecito domandarsi se questo sia uno scenario auspicabile. Agli albori internet aveva dato l’illusione di poter essere un luogo dove chiunque aveva libero accesso a qualsiasi tipo di informazione. In effetti un tempo, quando si faceva una ricerca, era possibile consultare tutte le pagine presenti nell’archivio, ma da alcuni anni le principali piattaforme digitali (Google, Facebook, Amazon, ecc.) hanno iniziato a mostrare un flusso di notizie e proposte commerciali opportunamente selezionate secondo il nostro specifico profilo.
I post che vediamo nella bacheca di Facebook sono determinati dalle precedenti connessioni e attività sul social. Amazon propone prodotti in linea con quelli acquistati. Anche i risultati forniti da Google sono filtrati in base alla cronologia delle ricerche dell’utente e alla località in cui si trova. Si tende a credere che i motori di ricerca siano neutrali, ma in realtà la medesima ricerca può dare risultati diametralmente opposti a seconda di chi la effettua.
A prima vista l’effetto del sistema di personalizzazione dei risultati di ricerche potrebbe sembrare l’unico escamotage possibile per non essere seppelliti da materiale inutile e salvarsi dall’overload informativo. Il rovescio della medaglia è che, rendendo irreperibili diverse fonti, il sistema di filtraggio finisce per diffondere un’informazione limitata e parziale, tutt’altro che oggettiva. In questo modo l’individuo rischia di rimanere isolato all’interno di una bolla dove tutti condividono i suoi stessi ideali e fanno da eco alle sue opinioni. Non a caso spesso come sinonimo di filter bubble si usa l’espressione “camera dell’eco”, un’ottima metafora per rappresentare la tendenza a scegliere solo le informazioni che confermano ciò che già pensavamo. È come essere in una stanza in cui tutti i suoni riverberano più che all’esterno e dove le nostre idee vengono mandate indietro più e più volte, uguali e identiche.
Originariamente il termine “echo chambers” era riferito ai media tradizionali, come la televisione e i giornali, i quali selezionavano le notizie per raccogliere intorno a loro un gruppo di persone con lo stesso orientamento politico-ideologico, creando di fatto delle bolle uniformi di pensiero. Tuttavia oggi questo meccanismo è ancora più pericoloso perché è meno evidente: non tutti sono a conoscenza del fatto che il sistema pubblicitario registra la storia dei comportamenti degli utenti e che poi utilizza queste informazioni per riproporre prodotti e servizi in linea con i loro gusti. L’effetto della camera dell’eco può facilmente trasformarsi nell’isolamento da ogni informazione in contrasto con il proprio punto di vista, minando la libertà d’espressione, che richiede la conoscenza comune dei fatti ed è sempre stata una prerogativa di internet.
Comunicando quasi solo con chi la pensa allo stesso modo, il risultato è che le posizioni, anche quelle politiche, si polarizzano verso gli estremi. Secondo alcuni esperti, la filter bubble sarebbe responsabile dell’avanzata dei movimenti populistici e avrebbe addirittura favorito la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane. Le accuse sono state rivolte in particolare a Facebook, i cui algoritmi di gestione dei trend topics avrebbero permesso al tycoon di sfruttare a proprio vantaggio i meccanismi di rilancio virale delle notizie e delle cosiddette fake news all’interno del social network.
Lo studio sulla filter bubble di DuckDuckGo
Sebbene Google abbia dichiarato di aver preso dei provvedimenti per ridurre l’effetto del filter bubble, uno studio di DuckDuckGo, motore di ricerca alternativo con un focus speciale sulla privacy, ha evidenziato come le ricerche degli utenti continuino ad essere personalizzate sulla base dello stile di navigazione. Chiedendo a 87 persone sparse negli Stati Uniti di cercare, nello stesso momento e in modalità anonima, gli stessi termini di ricerca, sono stati registrati 62 diversi elenchi di risultati. La cosa più sorprendente è che la maggior parte dei partecipanti ha ottenuto risultati personalizzati sia navigando normalmente che in modalità privata con disconnessione da Google. Nell’immagine qui sotto sono riportati alcuni dati emersi dallo studio:
Secondo DuckDuckGo questi dati dimostrano che la navigazione in incognito offre una protezione limitatissima dai filtri a bolla. Com’era prevedibile, Google ha contestato tali conclusioni in quanto basate sul presupposto che i risultati possano variare solo in funzione della personalizzazione, mentre ci sono altri fattori che possono portare a leggere differenze, ad esempio la posizione e il tempo, i quali, secondo il colosso di Menlo Park, non sarebbero stati controllati in modo efficace. Tuttavia, le variazioni nei risultati ci sembrano troppo evidenti per non essere dovute a personalizzazione.
Bisogna tenere presente che DuckDuckGo è pur sempre un concorrente di Google e che quindi avrebbe tutti gli interesse per screditare il rivale.
Filter bubble: alcune tesi contestate
Non tutti credono alla teoria della filter bubble e pensano che la metafora sia stata sovradimensionata dai media. Ci sono addirittura degli studi che dimostrano che non siamo intrappolati in una bolla.
1. I siti online accentuano il fenomeno della bolla di filtraggio
È vero che gli algoritmi indirizzano gli utenti in determinate direzioni, ma non portano ad una bolla, al contrario: gli utenti vengono messi anche davanti a informazioni che non li riguardano così da vicino. Questo è il risultato di uno studio dell’Università del Michigan, secondo il quale gli utenti si informano come vogliono, non solo in base al news feed di Facebook, ma leggono anche news che non corrispondono al loro orientamento politico.
2. I social network ci fanno vivere in una bolla
Secondo il rapporto Digital News Report 2017 di Reuters, il dibattito sulle fake news esploso dopo le elezioni di Trump avrebbe portato ad un ritorno ai mezzi di informazione tradizionali, come il New York Times e Fox News, e ad una scarsa fiducia degli utenti nelle fonti di informazione provenienti dai social network. Inoltre, da uno studio sulle modalità di fruizione dell’informazione da parte degli americani condotto nel 2013 dai ricercatori dell’Università di Oxford è emerso che i social sono le fonti che presentano opinioni politiche più eterogenee.
3. Dietro la filter bubble si nasconde l’opinione pubblica
È vero che gli algoritmi potrebbero essere migliorati e che i social dovrebbero limitare la propaganda, evitando di sostenere campagne dubbie che diffondono odio e diffamazione, ma ciò non potrebbe comunque impedire agli utenti di radunarsi o a determinate teorie di prendere piede. L’opinione pubblica è sempre esistita, solo che adesso si diffonde attraverso canali che permettono l’interazione.
Come bucare le bolle di filtraggio
L’unico modo per evitare la filter bubble e informarsi in modo libero, esponendosi ad una varietà di punti di vista, è diversificare le proprie fonti di informazione. Per fregare l’algoritmo si possono, ad esempio, usare i cosiddetti aggregatori di notizie, portali che diffondono news provenienti da tutto il web. Alcuni esempi sono Squid, ZicZac, Diggita, Fai Informazione e Reddit.
Per quanto riguarda i social network, un modo per uscire dalla comfort zone intellettuale della bolla e riprendere il controllo del nostro feed è quello di iniziare a seguire pagine non affini ai nostri gusti, evitando di cancellare dalla cerchia degli amici chi non la pensa come noi, così da ampliare il nostro orizzonte cognitivo.
Chi desidera navigare in anonimato proteggendo la privacy può utilizzare dei motori di ricerca alternativi a Google attraverso i quali è possibile ottenere risultati non filtrati in base alle abitudini online degli utenti. Oltre al già citato DuckDuckGo ci sono StartPage, Qwant, Hulbee, Lukol, Ecosia, Kiddle (sicuro per i bambini) e tanti altri.
Come utilizzare la filter bubble a vantaggio di una Strategia di Marketing
Dal punto di vista del web marketing, per un’azienda riuscire a penetrare con i suoi prodotti in una bolla di filtraggio significherebbe ottenere un grande potenziale di conversione. Il primo passo è conoscere bene il proprio target e le sue possibile problematiche, in modo da capire come il nostro prodotto potrebbe intervenire per risolverle. Un requisito indispensabile per riuscire a penetrare una bolla dei filtri è avere una forte brand awareness, solo così infatti le persone potranno fidarsi di noi.
Due ottimi strumenti per conoscere il proprio pubblico sono SEMrush e Answer the Public, che permettono di capire quali sono le parole chiave da utilizzare per posizionare i propri prodotti. Altri tool funzionali in chiave di penetrazione delle filter bubble sono BussSumo e Buzzoole, grazie ai quali è possibile individuare i gruppi di discussione in linea con il proprio prodotto, così da mirare alla giusta nicchia di persone.
Fonte
https://it.semrush.com/blog/filter-bubble-verita-navigazione-anonima-google/